domenica 26 dicembre 2010

Un Natale sciita


 
Andrea “Gandhin” Gusso

Il Natale 2009 fu un giorno diverso. Mi trovavo nel sud dell’Iran, nella città di Yazd, dai particolari muri di fango secco. Era la prima volta che passavo le feste natalizie lontano dalla mia famiglia. Viaggiando ti capitano cose inaspettate e se Natale è magico, lo è in tutto il mondo, credente o no.
Aspettavo insieme al mio compagno di viaggio Franta l’autobus alla porte della città. Avevamo il tempo per ordinare un hamburger e Franta si prese degli spaghetti che arrivarono dentro ad un panino. Pensavo che la pasta col ketchup fosse il massimo del sacrilegio culinario, ma, evidentemente, mi sbagliavo.

Una Nissan Patrol verde si fermò e ne scese un ragazzo che si avvicinò parlandoci in inglese.
“Hello, Dove andate?” “Andiamo a…” e gli mostrai la piantina perché non riuscivamo a pronunciare il nome. Stavano tornando alla loro città d’origine, Sirjan, a trovare l’altro figlio che era sposato e che era rimasto lì con sua moglie, mentre il resto della famiglia s’era spostata a Yazd. Eravamo di strada e ci offrirono un passaggio, ma non saremmo mai arrivati dove volevamo, era la vigilia di Natale a guidarci.
In auto erano già in cinque e con noi il numero salì a sette: il padre, la madre e la figlia davanti, io, Franta, e i due figli dietro con il bagagliaio che esplodeva dopo aver aggiunto i nostri zaini. L’unico che parlava inglese era il figlio di 17 anni, Hassan, che fungeva da interprete per le mille domande della madre. L’auto avanzava lentamente ad una velocità che era impossibile definire perché il conta chilometri era fuori uso. Il motore emetteva dei strani lamenti come avesse dei dolori di stomaco e Hassan ci disse che suo padre aveva avuto un incidente con quell’auto appena due settimane prima. Bene.


Ci fermammo ad una stazione di servizio con una grande moschea che distribuiva tè gratuitamente come sono soliti fare e mentre ci nutrivano di patatine, semi di girasole, di arachidi e di qualsiasi altro tipo di semi per criceti, inaspettatamente ci fecero gli auguri di Buon Natale. Ci invitarono a cenare e a passare la notte con loro. Entusiasti accettammo subito. Avremmo cambiato ancora una volta il nostro piano di viaggio, ma ne valse la pena.
A casa loro eravamo imbarazzati. Non sapevamo come comportarci a tavola. Cenammo in perfetto stile iraniano, seduti per terra a gambe incrociate. Stesero sul tappeto persiano nella sala da pranzo una tovaglia e portarono le pietanze. Ovviamente ci sedemmo uomini da una parte e donne dall’altra con i due genitori a delimitare i confini dei due semicerchi. Ci servirono pollo e riso e ci avventurammo sull’insalata e le varie deliziose salsine. Hassan si prendeva cura di noi sotto le direttive della madre che era la vera padrona di casa, anche se in pubblico doveva lasciar parlare il marito. Per il dessert avevamo portato una specie di torrone che chiamano gaz. Stavolta fummo noi a sorprenderli.
Dopo cena e dopo il tè la sala da pranzo diventò camera da letto per uomini, mentre le donne si sistemarono in un’altra stanza. Il padre ci indicò chiaramente che dovevamo dormire con i nostri pantaloni lunghi e così facemmo.

Non ci scambiammo regali. Franta non cenò con la carpa fritta tipica della Repubblica Ceca, e io non potei abbuffarmi di pesce e sfidare a calcio balilla i miei amici, ma fu una serata speciale, trascorsa insieme a delle persone semplici che ci fecero assaporare l’ospitalità iraniana e provare il calore di una famiglia unita adottandoci per una notte, la notte di Natale. Non poteva finire altrimenti visto che la madre si chiamava Maria, come mia madre, e c’era una grande statua della Madonna ad accoglierei i viandanti all’entrata della loro città.
Il giorno dopo Hassan ci portò ad uno speciale pranzo di Natale. In quei giorni gli sciiti iraniani celebravano l’Ashura, in ricordo della morte di Husayn ibn Ali, nipote di Maometto. La gente riempiva le strade in processione e con piccoli religiosissimi flagelli si colpiva la schiena o il petto con il pugno al ritmo di un religioso tamburo seguendo un religioso megafono da dove provenivano brani del corano. Durante i pasti andammo nei luoghi dove normalmente si studia e discute la dottrina sciita e in una sala colorata di verde e nero, con immagini di Husayn ovunque, avremmo avuto il nostro pranzo. Eravamo intimiditi e con la sensazione di essere totalmente fuori luogo, ma ci accolsero in modo caloroso e fummo trattati da ospiti speciali. 

Ci sedemmo per terra e ci fu dato il risotto che avevamo visto cuocere nelle cucine. La gente veniva a darci il benvenuto, a stringerci la mano, a farsi fotografare e alla fine una marea incontenibile di bambini vennero a chiederci l’autografo. Volevano che firmassimo qualsiasi cosa, dal contenitore del cibo, alla maglietta, alla mano, ovunque pur di avere il ricordo di quei due stranieri che venivano da non si sa dove, ma che non doveva essere l’America. Prima che la situazione diventasse insostenibile, ci scortarono fuori e ci fecero salire sulla Nissan Patrol, che, scoppiettando, ci portò nuovamente a casa.
L’idea di condividere il pranzo di Natale con la comunità sciita in Iran, era l’ultima delle cose che mi sarei aspettato da questo Paese, ma la gente comune è diversa. Se solo i politici, i governi, le autorità religiose si comportassero come la maggior parte delle personi comuni che vogliono solo pace, serenità e che trattano il prossimo con ospitalità e amicizia, penso che, forse, si vivrebbe un po’ meglio in questo mondo. Amen.

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