lunedì 27 dicembre 2010

Macroeconomia e mucche svizzere

Memorie di un Impoliticvs - 1

Un po’ difficile anche soltanto pensare di averla, una bussola, in questo momento. Gli aghi magnetizzati nei negozi sono andati esauriti, temo, da qualche anno. Buffo pensarlo, in un’epoca in cui la modernizzazione e l’informatizzazione sono le nuove divinità, e in cui ogni informazione è anche troppo accessibile. E dove i pericoli, se volete, sono molto meno espliciti, e più insidiosi, di quelli di una volta. Un tempo c’era la Guerra, no? Tendevi a figurartelo bene il nemico da combattere. Era in tutto e per tutto uguale a te, il tuo specchio, ti veniva incontro armato, e se non altro l’istinto di difesa poteva considerarsi una reazione naturale e comprensibile. Ok, era molto più tragicamente sanguinoso, ma anche, a modo suo, più a misura d’uomo. 

Ora invece la Grande Nemica è l’economia. Un esercito dotato di armi non convenzionali attraverso il quale si può mettere in ginocchio un paese chirurgicamente, con un dispendio di risorse minimo, da manuale di ottimizzazione aziendale. Tanto che dal reparto marketing chioserebbero con lo slogan “tutto in un click”.

Diciamoci la verità, una buona parte delle sicurezze di tutti si sono sgretolate quando l’onda lunga della tanto conclamata Crisi Mondiale è arrivata a vellicare prima, poi ad abbattere, anche la porta di casa nostra. Dalla fine del 2007 in poi il mondo come lo conoscevamo è finito, per fare posto ad una versione più esiziale, se posso permettermi di chiamarla così. Vero? Forse. Unfortunately, dato autobiografico, posso affermare di essermi “goduto” per intero tutta la crisi, i problemi sono iniziati più o meno da quando sono rientrato stabilmente a lavorare in Italia. Essendo tra l’altro a contatto quotidiano con i sommuovimenti del mercato del lavoro posso addirittura affermare che la mia visuale è stata privilegiata. Credo che in Italia, per una certa categoria di persone, non sia cambiato molto. Mentre cortei di disperati sfilavano per le strade delle città in preda al terrore, oppure interpretavano come un fallimento personale la crisi nella quale erano precipitate le aziende dove avevano lavorato per tutta la vita (e abbiamo capito soltanto in seguito che poteva anche andare peggio) una cricca di privilegiati (casualmente sempre gli stessi) hanno continuato a vivere alla stessa maniera, anzi, se possibile hanno accelerato i tempi della decomposizione. Come sempre o come molto spesso in Italia, (da questo punto di vista Paese premeditatamente medievale) le sottostrutture, che anche se le ignoriamo sono comunque lì, hanno mantenuto sopra la linea di galleggiamento quelli che, per meriti che solo casualmente possono essere considerati lavorativi, erano “affiliati”. La vecchia bazza delle corporazioni, insomma. Ok, il sistema non ha funzionato in assoluto, ma credo abbiate capito quello che intendo. 
Come si potesse andare avanti in questa situazione è quello che mi sono chiesto fin dai primi mesi del 2008. E allora mi sono detto che probabilmente l’italiano possiede un istinto di sopravvivenza congenito che può essere paragonato a quello delle mucche svizzere. Non a caso il detto tristemente famoso “franza o spagna purché se magna” è sopravvissuto fino a questi giorni proprio perché incarna uno dei vizi tipici della nostra popolazione. Che a volte tende ad accontentarsi di quel rettangolino di erba da masticare sufficiente per la giornata. 
 Ma c’è anche il rovescio della medaglia, che in questo caso può essere considerato il “dritto”. Cioè (sempre proseguendo la metafora della mucca) l’innegabile ed ampiamente riconosciuta qualità del latte, ovverosia il genius loci sparpagliato in mezzo alla popolazione italica. Angeli e demoni, quindi? Massa di pecoroni? Figliocci di Leonardo? Anche. Ma non solo. Un insieme non particolarmente omogeneo di eterogeneità, direi io.
Alcuni economisti accusano l’imprenditoria italiana di non avere affrontato la crisi ma di averla, parzialmente, rimossa. Con l’esito che per i prossimi mesi i segnali di ripresa si alterneranno alle brusche frenate e sterzate. Ma, mi dico, l’italiano e l’Italia non hanno da sempre il difetto congenito di una irrisolvibile discontinuità e di salvarsi sempre per il rotto della cuffia?


Cambiamo scenario. Voliamo in Germania. Ultimamente, mass media in testa, non si fa altro che parlare dell’esempio tedesco. La maniera teutonica di resistere alla crisi. La loro non arrendevole forza di volontà. L’automotive tedesco che ormai ‘crea’ il mercato globale. Dubbioso, per un attimo sottraggo la memoria alla naftalina. E mi ricordo che un tempo c’erano i francesi. E la loro maniera tutta transalpina di aderire alla vita. La grandeur, Parigi, la Tour Eiffel. Poi gli spagnoli, che avevano creato un Paese moderno, dove tutto era nuovo e tutto funzionava, economia in testa. E gli inglesi. E i giapponesi. Chiacchiere da bar, ovviamente. Ma sintomatiche della maniera tutta italiana di fare autocritica. Sia chiaro, niente di più pericoloso che prendersi troppo sul serio. La mancanza di senso dell’ironia, che coinvolga anche concetti considerati ‘sacri’ come patriottismo, Re e Regina, ha portato soltanto danno al mondo, la storia stessa è lì a confermarcelo. Ma insomma. Non sarà possibile che per una volta smettiamo di inseguire modelli per noi irreplicabili, riusciamo ad essere costruttivi e prendere il toro per le corna, il buono che questa crisi ci ha portato (un po’ di darwiniana selezione naturale, un ritorno al realismo delle cose serie, una brusca presa di contatto con il meccanismo spietato di azione e reazione, un nuovo senso civico, se volete più ‘morale’ del precedente), impastarlo con l’innegabile qualità che sotto auspici favorevoli riusciamo a produrre e ritornare ad essere come siamo stati, perché io me lo ricordo che lo siamo stati, interpretando dinamicamente il fatto di trovarci nel 2011, nonostante tutte le zavorre e la renitenza di ogni italiano nei confronti del progresso? Non può essere che per una volta la smettiamo di piangerci addosso e riprendiamo a funzionare come una macchina oliata che abbia metabolizzato il fatto che il segreto del nostro successo è proiettarsi nel futuro con nella mente ben chiaro ciò che siamo e quello che siamo stati?

Vi lascio con un questo interrogativo da dirimere. E, credetemi, è un atto assolutamente deliberato.

Appuntamento alla prossima.

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