domenica 26 dicembre 2010

Digito ergo sum


Ulrico Bovo
 
Nella debole luce che passava attraverso il filtro rosso dell’ingranditore cercava il punto che gli avrebbe permesso una accurata messa a fuoco. Regolò pian piano il soffietto, chiuse l’obiettivo di due diaframmi, spense la luce dell’ingranditore e premette il pulsante del timer. Nel frattempo tolse la foto precedente dal liquido di fissaggio per metterla nella bacinella d’acqua. La pallida luce bianca che illuminava il foglio di carta fotografica si spense. Prese il foglio e lo immerse nella prima bacinella e rimase ad aspettare quando le immagini avrebbero iniziato ad apparire, lentamente, dapprima le parti più scure, poi i dettagli, come se l’immagine stesse per riemergere sempre più nitida dalla sua memoria.
Quando il foglio si fece scuro lo prese con la pinza e lo mise nella vaschetta che conteneva il maleodorante liquido di fissaggio. Il telefono nel salotto si mise a squillare.
Frettolosamente, prima di poter aprire la porta del bagno, incartò i fogli di carta fotografica nella loro pesante e nera carta stagnola, li introdusse nelle loro scatole di cartone.
Si precipitò al telefono. Era il segretario della sezione che gli chiedeva se avesse potuto affiggere dei manifesti questa sera. “Va bene, sento se Mario vuole venire con me e tra un’ora sono in sezione”. Riappese e introdusse il dito nella rotella del telefono, il numero di Mario lo conosceva a memoria. Accompagnava la rotella con il dito fino a trovare la linguetta di metallo cromato, sfilava il dito e la rotella tornava lentamente indietro, gracchiante, a velocità costante. Non gli piacevano i telefoni a tastiera che oramai erano quasi dappertutto, il telefono di casa gli piaceva così, poco pratico, lento, pesante, meccanico, sicuro. “Mario? Ciao, senti che fai stasera? Verresti a fare attacchinaggio? Passo a prenderti con la Vespa e poi si può andare a bere qualcosa alla Festa dell’Unità, va bene?”.
Riappoggiò la cornetta sull’apparecchio e sentì lo scatto di fine corsa dei piolini bianchi, che interrompeva la comunicazione.
Per oggi avrebbe finito di sviluppare le foto, tornò nel bagno e con attenzione svuotò le vaschette dei liquidi di sviluppo e fissaggio nelle bottiglie plastiche dal corpo tozzo e collo largo. Li avrebbe riutilizzati forse domani, i genitori erano in campeggio in ferie, la casa era a sua disposizione.
Prese le foto accartocciate dal fondo della vasca, e controllò le altre, che rimanevano ancora, umide, attaccate alle pareti della vasca ed alle mattonelle del bagno. Passò le foto dalla vasca del fissaggio alla bacinella d’acqua e quelle della bacinella alle pareti della vasca.

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Scesero dalla Vespa davanti alla Sezione del partito. Salirono veloci le scale ed entrarono nella sala delle riunioni, dove severi li osservavano da grandi manifesti alle pareti  i volti in bianco e nero di Lenin, Gramsci e Berlinguer. Un compagno una volta gli mostrò anche dove c’era il quadro con il ritratto di Stalin, sopra l’armadio, ricoperto di polvere, non gettato via temendo di compiere un gesto sacrilego. Il segretario della sezione, Beppe, li stava aspettando e sull’ampio tavolo delle riunioni giacevano srotolati i manifesti da affiggere.
Dallo sgabuzzino della sezione presero la scatola di cartone della colla da parati ed il secchio, che riempì d’acqua solo a metà. Iniziò a mescolare l’acqua con il manico della scopa, mentre Mario faceva cadere a polvere la colla dall’alto. Non doveva fare grumi, gli raccomandavano sempre i vecchi compagni, i quarantenni invece ridendo ricordavano di quando, all’epoca delle occupazioni universitarie, mescolavano alla colla anche frammenti di vetro di bottiglie frantumate, in modo che i manifesti appesi rimanessero lì in eterno, non copribili da altri e non strappabili dai muri.
Poi si misero ad arrotolare i manifesti, anche qui seguendo le istruzioni tramandate da generazioni di attivisti politici: si iniziava arrotolando il primo manifesto e lasciando una lingua di venti centimetri circa, nella quale si inseriva il secondo manifesto, a testa in giù. Una volta fissato al muro il bordo superiore sarebbe bastato srotolare il pacco, e questo avrebbe facilmente stirato alla parete il manifesto affisso, senza causare quelle fastidiose bolle d’aria che difficilmente si sarebbero eliminate con lo spazzettone intriso di colla.
Fissarono al portapacchi posteriore della Vespa il secchio della colla, premurandosi di infilare un foglio di cartone dietro al secchio per evitare di inzaccherare la schiena di Mario in caso di brusca frenata, i rotoli di manifesti sul portapacchi anteriore, lui prese posto alla guida, Mario di dietro, brandendo lo spazzettone a guisa di lancia, novello San Giorgio alla caccia del drago delle ingiustizie sociali.

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La Vespa si fermò con un sussulto smettendo di illuminare di tremolante luce giallina l’ingresso ai campi sportivi. Mirarono subito allo stand della cucina, la maggiore struttura in lamiera zincata presente nella Festa, circondata da bandiere rosse, tricolori ed arcobaleno, la musica usciva distorta dagli altoparlanti, gracchiante e fastidiosa, ai lunghi tavoloni stava seduto oramai solo chi lavorava alla festa, giunta all’orario di chiusura. Le simpatiche compagne della cucina li salutarono vedendoli arrivare. Una, rotondetta e sorridente, si alzò per tornare subito dopo con due piatti di pasta alle salsicce e l’immancabile bottiglia di rosso.
Era una bella atmosfera, quella delle feste, gli piaceva partecipare anche all’allestimento, quando tutti i compagni di una sezione scaricavano i camion di lamiere tra volgari battute ed imperiose bestemmie. Quando chi si ricordava come montare le strutture della festa contava di più del segretario provinciale, quando chi non riusciva a capire istruzioni semplici doveva subirsi l’appello di “democristiano”.
Era un avvenimento, la preparazione della festa, vi partecipavano sempre tutti, indipendentemente dalla professione e dall’età, facevano finta di essere incazzati o infastiditi, ma, in fondo, si vedeva che si divertivano a costruire il grosso Meccano in compagnia, bevendo a canna dalle bottiglie di vino.
Poi entravano in campo le donne, le mogli, le compagne, che nelle gabbie di latta allestivano le grandi cucine da campo, in grado di sfamare centinaia di persone e vi lavoravano tutte le sere per dieci giorni consecutivi, per finanziare il loro partito. Era uno strano miscuglio di allegria ed incazzatura, incazzatura con il mondo per le difficoltà economiche personali ed allegria per essere un gruppo solidale, in grado di far fronte alle difficoltà, capace di collaborare, orgoglioso, fiero.
Passare per le cucine e vedere le donne nei loro camici bianchi agitare mestoli e gridare oscenità sorridendo lo metteva di ottimo umore.

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Il forte e ritmato rumore metallico scandiva il tempo. Le ganasce del ciclostile si aprivano accogliendo il nuovo foglio e si richiudevano ricompattando la risma di carta. Il rullo trascinava rumorosamente il nastro di stoffa intriso di pesante inchiostro nero, sul quale era appoggiato il leggerissimo velo di carta perforato. Teneva fissi gli occhi su ogni foglio che usciva svolazzando per finire nella vaschetta del ciclostile, per vedere quando premere nuovamente la leva che spremeva il grosso tubo di piombo carico di pastoso inchiostro. Se avesse dosato male l’inchiostro i volantini sarebbero usciti o troppo pallidi ed illeggibili o si sarebbero incollati al rullo, il ciclostile avrebbe trasformato la rassicurante cadenza in un disordinato rumore di ferraglia, il foglio si sarebbe incastrato nelle viscere del ciclostile e la macchina avrebbe trascinato blocchetti di decine di fogli bianchi nella vaschetta dei volantini. Oramai lo sapeva fare abbastanza bene, quel lavoro, lo aveva imparato già alle elementari, quando facevano il giornalino di classe. Con la vecchia macchina da scrivere del papà scriveva lunghi testi e ad ogni battuta errata – ed erano sempre tante - doveva intervenire con una specie di smalto rosa scuro dall’odore alcolico e dolciastro, creando un secondo velo sulla lettera sbagliata sul quale poi scrivere nuovamente. Quando la maestra controllava la matrice in controluce, questa era tappezzata dalle macchiette rosa del correttore.
Ora i tempi erano cambiati, nella sezione avevano acquistato con parte dei proventi della Festa dell’Unità uno scanner elettronico che era in grado di copiare da un normale foglio, incidendo con una scintilla elettrica le matrici, permettendo così anche la riproduzione di disegni. Dalla sezione era scomparsa la boccetta del correttore rosa.
Stavano preparando i volantini che domani avrebbero distribuito al liceo scientifico, 500 studenti, giusto una risma di carta.
Stampare i volantini era l’unico modo per poter far sentire la propria voce.

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La foto che voleva pubblicare sul suo blog era troppo “pesante”, con il programma grafico ne stava aumentando la luminosità, il contrasto, diminuendo il formato per poi salvarla in un formato adatto alla pubblicazione in rete.
Aveva l’abitudine di commentare sulle sue pagine personali gli avvenimenti del giorno, inserendovi sempre una fotografia.
Il cellulare iniziò a vibrare, quasi come un gatto che faccia le fusa, sulla scrivania. Era Mario, che lo invitava alla riunione dei circoli per lo statuto del Partito Democratico.
Non ci voleva andare, come avrebbe resistito fino all’ultimo per non partecipare alle discussioni sulla “cosa rossa”. Era successo qualcosa in questi ultimi anni. Qualcosa che non riusciva a definire. I compagni delle Feste dell’Unità erano scomparsi, invecchiati, incazzati, delusi, chissà dov’erano finite le strutture e le cucine da campo, la politica sembrava aver assunto i connotati di un salotto televisivo, un dibattito da bar dello sport dove avrebbe vinto chi avesse detto la cazzata più grossa.
Era propenso a dare la colpa del degrado della politica all’operato delle televisioni di Berlusconi, alla sua politica, ma ora non ne era più troppo convinto.
C’era dell’altro. Nessuno ascoltava più. Le televisioni urlavano notizie prive di valore e taceva quelle importanti. Le ultime volte in cui aveva partecipato ad un dibattito pubblico rimase allibito, notando come ognuno, il pubblico che interveniva, come i politici dietro al tavolo dall’altra parte, parlasse da solo, senza dialogo. Tutti parlavano di Internet. Della necessità di essere visibili, di rendere visibili i propri pensieri, ma non erano in grado di esprimerli, gli unici erano quelli che riguardavano organizzazione, poltrone, incarichi, mai idee. La parola idea sembrava essere diventata volgare.
Le pagine in rete non esprimevano più il proprio modo di vedere le cose, ma sembrava che la politica vi si fosse trasferita, forum e dibattiti con un paio di amici partecipanti… stava nascendo una vita parallela, dove l’esistenza veniva decretata da google, dove il successo era legato al numero delle pagine in cui si è presenti. Il “cogito ergo sum” è stato sostituito dal “digito, ergo sum”.
Si rese conto allora di quanto avesse contribuito a creare il mostro. Si affrettò a cancellare il proprio blog. Frugò poi nel cassetto della scrivania fino a quando non riuscì a trovarlo, il vecchio volantino dalle lettere dal colore irregolare e dal foglio giallastro. Prese la forbice e lo tagliuzzò in piccoli coriandoli. Poi aprì ancora le lame della forbice e le richiuse con forza, recidendo il cavo che lo collegava ad internet...

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